mercoledì 30 marzo 2011

il senso dell'andar per funghi

a volte mi sembra che scrivere sia un’attività come andare a funghi, una di quelle cose che non capisci bene dove stia la soddisfazione nel farle, ché ti devi alzare presto quando ancora è buio e devi scarpinare e non vedi dove metti i piedi e poi scivoli e se cadi non devi mettere le mani per terra perché ci sono le vipere e guarda, un porcino! ah, no è matto.
e allora ancora scarpini, finisci nella pietraia e ti scortichi le ginocchia, ne esci, il sentiero non si vede però bene, mai si vede bene il sentiero e poi viene a piovere e hai il k-way bucato e sei in una sterminata pineta da cui neanche correndo riusciresti a uscire prima che fiocchino fulmini e poi però smette e, guarda, un porcino! è un porcino? sì, sì, è un porcino! un po’ vecchio, un po’ zuppo d’acqua, ma per il risotto va bene…insomma, più o meno. vabè, metti nel cestino e prosegui. cammini e cammini e hai sete ma non si beve quando si cammina, si beve quando si arriva, ma tanto sai già che non si arriva mai, perché non è che andare a funghi significa andare al negozio di funghi, no, andare a funghi significa andare e basta, andare senza magari nemmeno trovarli, i funghi, significa entrare in un bosco da un punto e uscirne chilometri più in basso rispetto a dove hai lasciato la macchina, così che dopo ti tocca pure fare tutta la strada in salita (epperò almeno sulla strada ci sono i lamponi, grazie a dio).
scrivere parole per me è un po’ come muoversi nel buio e sentire le ragnatele che mi si impiccicano addosso: ogni tanto sono parole buone quelle che si incollano tra i capelli, altre volte –il più delle volte- sono solo cose di schifo, come la maggior parte delle ragnatele, ché solo pochissimissime sono perfette e tutte intere e brillanti di pioggia o di rugiada.
a me mi sembra di fare tanti giri in tondo, come a giocare a mosca cieca, che mosca cieca diventa un gioco terribilmente frustrante quando non trovi nessuno, quando tutti acchiappano subito un compagno e invece quando tocca a te tutti stanno silenziosissimi e non li trovi e ti senti un incapace totale.
a volte mi piacerebbe solo trovare una figura di umano nel bosco, qualcuno da dirgli buongiorno! come si fa per i sentieri quando incontri i signori che passeggiano belli arzilli e riposati che ti chiedi se fingono per non darti la soddisfazione di mostrarti che anche loro sono a pezzi, mi piacerebbe trovare qualcuno da fermarsi insieme a una fontana e raccontarsi in silenzio tutta la stanchezza di questo andare e invece sto in silenzio da sola a pensare che a me non è mai piaciuto andare a funghi se non per i lamponi.

vabbè, pessimismo e fastidio oggi, pessimismo e fastidio.

venerdì 11 marzo 2011

inabbastanza

i miei desideri sono
sottili e rari, sono
capelli di vecchia che si fa calva.
sono i miei desideri
spaghetti di riso
orizzontali e inconsistenti.
non bastano
a restituirmi il midollo
i miei desideri.

martedì 8 marzo 2011

dice mirna

dice mirna
ricominciare a fare senza passare dal pensare. fare e basta, che poi ritrovi il piacere di fare.
fare senza pensare.
lo dice mirna.
se lo dice mirna è vero.
e io allora lo faccio.
disciplino il corpo e la mente. rieduco.
orario per andare a letto, per leggere, per dormire e per svegliarmi.
uscire e passeggiare al parco alla mattina appena sveglia.
cucinare
e
mangiare.
la doccia.
fare fare fare.
poi, nel ripetersi del fare, si generano crepe e spaccature.
e da lì germoglia il piacere.
così dice mirna.
e allora io faccio.

mi sono iscritta a un corso di disegno.
sono andata venerdì a seguire la lezione di prova.
lo studio dove charissa, la mia insegnante, dà le lezioni, è al pian terreno di un palazzo che fa angolo. così la luce entra da due lati.
sono entrata ed ero un po’ a disagio, avevo paura di essere troppo in anticipo. nelle situazioni nuove mi sento sempre un po’ a disagio, fuori posto. invece Charissa mi è venuta incontro sorridendo e mi ha detto: “Sara?”. avevo fissato l’appuntamento, per quello sapeva il mio nome. mi è piaciuta questa cosa che mi abbia chiamato per nome, mi ha fatto sentire un po’ come a casa.
mentre charissa parlava al telefono, io curiosavo in giro. c’erano barattoli pieni di pennelli e matite e tubetti di colori in ordine cromatico.
poi charissa mi ha fatto accomodare in un’altra stanza. mi ha chiesto se il mio nome si pronunciava Sara o Sarah. abbiamo parlato in inglese.
charissa mi ha detto che avrei dovuto provare a ricopiare una tazza. mi ha dato una matita e una gomma. dopo, avrei dovuto tentare di definire i volumi con dei carboncini e dei bastoncini di grafite. almeno, credo che fossero bastoncini di grafite: in inglese non capivo una cippa dei nomi che pronunciava la mia insegnante, io dicevo sì e basta ma non riuscivo a memorizzare. mi ha dato anche una gomma pane e una specie di matitina di carta, una robina tutta pelosetta per fare le sfumature.
ho disegnato, due ore.
tutto il mio corpo è caduto in una sorta di stato ipnotico.
eravamo solo io e il foglio e tutto quel materiale per me nuovo e bellissimo e quella fottutissima tazza che non voleva saperne di farsi disegnare uguale uguale.
ogni tanto charissa veniva da me, mi correggeva, mi chiedeva dove, a mio avviso, avevo sbagliato. mi diceva di osservare il mio lavoro attraverso lo specchio per vederne i difetti.
io rispondevo, un po’ ridevo, facevo battute sull’obbrobrio partorito, mugulavo quando lo guardavo allo specchio. poi riprendevo a disegnare.
dopo due ore ero stremata.
charissa deve essersene accorta e mi ha detto di non preoccuparmi, che all’inizio è sempre così.
in realtà ero stremata ma traboccante di un benessere antico e dimenticato, un benessere lontano di merende dalla nonna e capanne costruite con le coperte tra le sedie, benessere di giochi e storie inventate. benessere di piccoli.

oggi è martedì e mi scopro ad attendere impaziente il venerdì.
ve-ner-dì.
senti come suona bene.
ve-ner-dì.
aspetto il venerdì con eccitazione, lo desidero.
desiderare è già provare piacere, è provare un piacere tutto in potenza, è l’idea platonica di piacere in nuce. quindi, in un certo senso, il desiderio è la massima espressione del piacere.
io oggi desidero il venerdì, il mio venerdì, solo mio.
venerdì. venerdì.
come succhiare la vita dal becco dei passeri, come ritornare a camminare dopo una malattia.
venerdì, venerdì.

dice mirna.
dice bene.

martedì 1 marzo 2011

l'altro

qualche giorno fa ho letto una frase di Frida Kalho che dice “dipingo autoritratti perché sono spesso sola, perché sono la persona che conosco meglio”.
a raccontare, per me, è la stessa cosa. 
scrivo soprattutto di me non perché è più facile, ma semplicemente perché mi so. 
i personaggi di ciò che racconto esistono, sempre, ma non li so, non sono conoscibili.
l’altro è sperimentabile, è incontrabile, ma rimane –dolorosamente, a volte- Altro. e nella sua alterità sacra, l’ Altro non è raccontabile, non nel senso più profondo.
degli altri posso dire ciò che di loro mi attraversa, ma  l’altro, nel suo essere più autentico, io non lo saprò mai.
è impossibile per me dar vita a personaggi inesistenti. la creazione di un personaggio è attesa e osservazione di altri che si muovono in un altrove che non so indicare.
nelle storie “inventate” i personaggi sopraggiungono da dietro, te li ritrovi accanto senza accorgertene. quelli che arrivano da davanti sono sfida e ti mangiano il tempo e lo spazio e hanno occhi cattivi. 
bisogna stare in silenzio e avere orecchie fini, attente a ogni palpitio lieve, per provare a scrivere di altri, per provarsi nell’impossibile.